La fotografia, nei suoi 180 (e più) anni di vita, ha trovato applicazione ovunque, nella scienza e nelle materie umanistiche, nel tempo libero e nella comunicazione contrapponendo, però, a questa sua utilità pratica una forma espressiva che ne ha fatto ben presto un mezzo artistico e di sperimentazione.
La singolare fusione tra questi due elementi, creatività e praticità, ha messo la fotografia nella particolare posizione di trovarsi ad essere contemporaneamente bene culturale e strumento al servizio dei beni culturali. Da sempre, infatti, in misura crescente di pari passo alla sua evoluzione, la fotografia ha contribuito notevolmente alla conservazione, tutela e diffusione dei beni culturali.
Difficilmente un altro mezzo ha risposto così pienamente a quelli che sono gli obiettivi principe degli operatori dei beni culturali. Conservazione, tutela e diffusione che sono stati garantiti dall’uso della fotografia in molteplici modi:
Questa, per iniziare, si è esplicata attraverso il mantenimento della memoria. L’opera di molti fotografi, già dalla seconda metà del XIX secolo, ha permesso di registrare lo stato e l’esistenza di luoghi e monumenti che, nel frattempo, sono cambiati o addirittura scomparsi. L’uso di queste foto ha permesso, in molti casi, un restauro di questi monumenti o un ripristino dei luoghi e, comunque, ne ha consentito la conoscenza e lo studio.
Molti di questi fotografi erano addetti ai lavori: archeologi come ad esempio Thomas Ashby, che tra ‘800 e ‘900 documentò con scientifico rigore le testimonianze del passato, in una sorta di personale Grand Tour che lo portò ad attraversare quasi tutta l’Italia; dipendenti della P.A. come l’ing. Giovanni Gargiolli, primo direttore, e fondatore, nel 1892, della Fototeca Nazionale (allora Gabinetto Fotografico Nazionale) che documentò, tra le altre cose, le mura di Alatri.
Altri, invece, erano semplicemente dei fotografi: i fratelli Alinari che da Firenze si mossero a documentare vita, luoghi e opere d’arte dell’Italia prima alle soglie dell’unità e poi tutta sotto la stessa bandiera; e, tanto per restare a cavallo dei secoli XIX e XX, i vari Caneva, Moscioni, Morpurgo (questi fotografò i lavori di sventramento ai Fori Imperiali e a Corso Rinascimento e la successiva edificazione della Roma umbertina e fascista), oltre a tanti altri.
Nel ‘900 la guerra prima e il boom economico poi portarono, per motivi opposti, nuove tecnologie e possibilità e, insieme alla scienza archeologica che negli anni 50/60 trovava una nuova dimensione nella new archeology, la fotografia si apriva alla modernità.
Il rinnovato interesse per i beni ambientali e culturali che negli anni ‘60 attraversò la società italiana portando all’istituzione parlamentare della cd “Commissione Franceschini”, unito alle nuove possibilità tecnologiche, ha poi reso possibile una collaborazione sempre più stretta fra le discipline culturali e la fotografia.
Dalla conservazione della memoria dei beni culturali si arrivò, così, alla tutela e alla conservazione fisica degli stessi. Anche in questo caso la fotografa interviene nel processo di tutela testimoniando, in maniera oggettiva, lo stato delle cose e dei luoghi. La ripresa di un sito (ambiente, monumento o altro che sia) da preservare, sottoposto o meno a vincolo, permette di individuare subito le eventuali modificazioni eventualmente occorsegli col passare del tempo.
L’eventuale vigilanza televisiva (mezzo di indubbia derivazione fotografica) ne permette il controllo completo preservando il bene, insieme ad altri mezzi umani e tecnologici, da tentativi di manomissione.
Ma, soprattutto, la tutela atta alla conservazione arriva quando il mero mezzo tecnico si affina e, con le nuove tecnologie, consente un lavoro di indagine sul bene culturale che va ben aldilà del visibile. Infrarosso e ultravioletti, per esempio, leggono il bene al disotto della sua superficie consentendo di scoprire la presenza di eventuali agenti patogeni o di forme degenerative.
L’utilizzo di particolari tipologie di illuminazione, inoltre, permette di mettere in risalto segni (su materiali litici o metallici) altrimenti difficilmente leggibili consentendone così la comprensione. L’uso della luce radente naturale, infine, permette la ricerca, tramite la fotografia aerea, di aree di interesse archeologico.
Sono innumerevoli gli esempi possibili sulle applicazioni della fotografia nell’ambito dei beni culturali: ogni specializzazione in questo campo ha il suo tipo di fotografia e ogni specializzazione fotografica ha un suo riscontro ed utilizzo nei beni culturali.
Ma il contributo più evidente, non più e non meno importante degli altri ma sicuramente il più visibile, che la fotografia ha portato ai beni culturali è la loro diffusione: la fotografia ha permesso a tutti di vedere, studiare, apprezzare, un quadro, un monumento, uno scorcio delle città d’arte.
Se in passato la fruizione di un bene era relegata solo a chi fisicamente poteva accedervi oggi tutti possono farlo senza muoversi da casa. E se, non paghi di averlo visto di persona, vogliamo comunque tenerne con noi il ricordo, possiamo averne la copia o la rappresentazione senza problemi.
La diffusione della cultura, che il bene incarna e rappresenta, è il vero nodo della questione. La cultura appannaggio di pochi ha, storicamente, prodotto guasti ed aberrazioni. Il fatto che la fotografia sia il mezzo principe (assieme, logicamente, ai libri) della sua diffusione rende nobile il lavoro svolto dai fotografi del passato e da quelli che ancora si dedicano alla ripresa dei beni culturali.
La documentazione e la sperimentazione, la realtà e la fantasia su una stampa fotografica, il mondo nelle sue bruttezze e nella sua faccia più bella: la fotografia è cultura, la produce, la protegge e la diffonde in un sistema che si alimenta di una sola cosa: la nostra curiosità.